“Diciamo che sono
scaramantico più per educazione che per indole. Innanzi tutto
provengo da una famiglia napoletana, dove esserlo è d’obbligo. A
casa, guai a lasciare il cappello sul letto o ad aprire l’ombrello
prima d’essere sull’uscio. (racconta Giulio Scarpati) Poi, appena sedicenne, quando
m’iscrissi alla scuola di teatro di Enza De Giorgi, venni subito
rigidamente iniziato anche a tutte quelle scaramanzie caratteristiche
di questo mondo di teatranti. Ricordo ancora la vecchia insegnante
quella volta che rispedì subito un alunno a casa a cambiarsi
perché indossava una camicia vagamente violacea. A me invece per
prima cosa vietò di fischiare in teatro perché, diceva, i fischi
portano altri fischi. Oggi, per una sorta di riflesso condizionato,
le ripeto tutte, le scaramanzie “familiari” e quelle per così
dire “professionali”. Ma l’unica cui tengo veramente è quella
del chiodo... Quando sul palcoscenico ne trovo uno piantato storto me
lo prendo. Ne ho la valigia piena e non vado mai in scena senza
prenderne prima uno e ficcarmelo in tasca. Tra noi attori è anche
usanza regalarci strani amuleti, così il mio camerino diventa una
specie di trovarobe con corni vari, coccinelle, elefantini con la
proboscide in su. Persino un pulcino di peluche e una vecchia e
inquietante scarpetta nera che mi regalarono e mi porto appresso da
quando all’inizio della carriera portai in scena uno spettacolo che
si chiamava Orfani.”.
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